UFFICIO DI SORVEGLIANZA DI SPOLETO 
                    Il Magistrato di sorveglianza 
 
    Letta l'istanza pervenuta il 3 ottobre 2020 in favore di M. G.  ,
nato in il , attualmente detenuto presso la Casa Circondariale  di  ,
in esecuzione della pena di cui al  provvedimento  di  cumulo  emesso
dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ancona in  data
31 agosto 2020, per la pena residua di anni due, mesi  sei  e  giorni
diciannove di reclusione; 
    Decorrenza pena: 16 ottobre 2019 e fine pena, tenuto conto  della
liberazione anticipata concessagli, al 19 marzo 2022; 
    Rilevato che  nell'istanza  si  chiede  a  questo  magistrato  di
sorveglianza la misura dell'affidamento in prova al servizio  sociale
in via provvisoria ex art. 47, comma 4, ord. penit., in attesa  della
decisione  definitiva  da   parte   del   competente   Tribunale   di
sorveglianza; 
 
                               Osserva 
 
    Il M. e' detenuto  presso  l'istituto  penitenziario  di  dal  16
ottobre 2019. 
    In precedenza, in relazione al  provvedimento  di  cumulo  emesso
dalla Procura della Repubblica di Macerata in data 8  febbraio  2017,
l'interessato aveva ottenuto dal Tribunale dl sorveglianza di Perugia
di eseguire la pena della reclusione  per  anni  tre per  delitti  di
furto aggravato tentato, furto aggravato ex art. 624-bis  del  codice
penale e  resistenza  a  p.u.  e  danneggiamento,  fatti  degli  anni
2010-2011, mediante l'affidamento in prova al servizio sociale. 
    La misura aveva avuto regolare inizio e si era svolta, per  oltre
due anni e mezzo, mediante impegnata attivita'  lavorativa,  positivi
rapporti con i servizi e supporto del  nucleo  familiare,  costituito
dalla compagna e dalla figlia, nata a dicembre del 2018. 
    Ad agosto 2019, a diciannove giorni  dal  fine  pena,  il  M.  si
allontanava dal domicilio indicato nella misura e, per quanto poi  si
e'  potuto  verificare,  dal  territorio  nazionale.  Ne  seguiva  la
sospensione  urgente  della  misura  da  parte  del   magistrato   di
sorveglianza di Perugia e la revoca  della  stessa,  a  fronte  della
«inequivocabile interruzione volontaria della  misura  concessa,  per
ragioni per altro del tutto sconosciute e neppure ipotizzabili in via
congetturale», con ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia
in data , pur dandosi atto di un  pregresso  andamento  positivo  che
motivava l'a.g. a considerare comunque validamente  espiata  la  pena
sino al 4 agosto 2019, data precedente al riscontrato  allontanamento
non giustificato. 
    La carcerazione riprendeva il 16 ottobre 2019 con riferimento  ad
un sopravvenuto provvedimento di cumulo, poi ulteriormente aggiornato
da quello meglio citato in rubrica, in cui  sono  confluite  condanne
per un episodio di furto ex art. 624-bis del codice penale e per  uno
di ricettazione, fatti degli anni 2012-2013,  nonche'  una  quota  di
pena per il brevissimo residuo relativo alla precedente esecuzione. 
    La difesa dell'interessato ha fatto pervenire  l'odierna  istanza
di affidamento in prova  al  servizio  sociale  in  via  provvisoria,
ravvisando l'urgenza di un rientro in societa'  del  condannato,  sia
per poter attendere  ai  propri  compiti  in  ambito  familiare,  sia
soprattutto per darsi a lecita attivita' lavorativa,  disponibile  in
suo favore e, stando alle  indicazioni  del  datore  di  lavoro  (una
autofficina di ), con la  necessita'  di  iniziare  subito,  per  non
costringere la ditta a cercare un altro operaio per sostituirlo. 
    Nell'istanza vengono  esaminati  i  profili  di  inammissibilita'
connessi al disposto dell'art.  58-quater,  comma  1,  2  e  3,  ord.
penit., in questa sede rilevanti. 
    Occorre infatti  ricordare  che,  a  mente  della  norma  citata,
l'assegnazione   al   lavoro   all'esterno,   i   permessi    premio,
l'affidamento  in  prova  al  servizio  sociale  nei  casi   previsti
dall'art. 47,  la  detenzione  domiciliare  e  la  semiliberta',  non
possono essere concessi al condannato  nei  cui  confronti  e'  stata
disposta la revoca di una misura alternativa ai sensi  dell'art.  47,
comma 11, dell'art. 47-ter, comma 6, o dell'art. 51,  comma  1  della
legge penitenziaria. 
    L'art. 58-quater, comma 3, precisa poi, per  quanto  concerne  la
fattispecie qui esaminata, che il divieto di concessione dei benefici
opera per un periodo di tre anni dal momento in cui e'  stato  emesso
il provvedimento di revoca. 
    Nell'istanza, dunque, si palesa come, pur non rilevando i  motivi
che indussero il M. all'allontanamento, lo stesso ha sempre affermato
di essere incorso in errore rispetto al termine della  misura.  Dalla
revoca l'ordinamento penitenziario fa  discendere  oggi,  secondo  la
difesa   dell'istante,   «l'operativita'   di    odiosi    meccanismi
automaticamente preclusivi di qualsivoglia indagine avente ad oggetto
la meritevolezza di una misura alternativa alla detenzione, in palese
violazione dell'art. 27 della Costituzione», ponendosi il divieto che
segue la revoca in contrasto con la norma di rango  costituzionale  e
dunque con l'ormai lungo e  consolidato  indirizzo  giurisprudenziale
volto ad erodere progressivamente tali automatismi. 
    Si aggiunge poi che, nel caso di specie, la revoca intervenne  in
relazione ad altro titolo esecutivo, cui e'  seguita  in  un  secondo
momento l'emissione di un nuovo provvedimento di cumulo. In tal senso
si richiede all'a.g. di non abbracciare l'indirizzo giurisprudenziale
di legittimita' a lume del  quale  il  divieto  dura  un  triennio  a
prescindere dal titolo cui faccia riferimento, derivandone altrimenti
l'imprevedibilita' assoluta delle conseguenze delle proprie  condotte
al momento in cui le si pone in essere e comunque determinandosi  una
sorta di status  soggettivo  di  pericolosita',  contrastante  con  i
principi propri dell'esecuzione penale. 
    L'istanza, dunque, pur non chiedendo espressamente al  magistrato
di  sorveglianza  di  sollevare   una   questione   di   legittimita'
costituzionale sui punti indicati, certamente evidenzia le criticita'
che sotto questo profilo emergono e gli rimette ogni valutazione, nel
richiedergli una decisione nel merito favorevole al condannato. 
    L'interessato,  inoltre,  ha  voluto  rendere  dichiarazioni   al
magistrato di sorveglianza, nel corso  di  un  colloquio  intervenuto
presso l'istituto penitenziario di in data 14 ottobre  2020,  la  cui
verbalizzazione e' in atti, con le  quali  ha  affermato  di  essersi
allontanato ad agosto 2019 per tornare nel suo paese di origine, la ,
dopo quasi tre anni di misura alternativa  in  cui,  ovviamente,  non
aveva  potuto  farvi  rientro,  soltanto  perche'  convinto  di  aver
terminato l'espiazione della pena, secondo i suoi calcoli, e  con  la
volonta' di passarvi soltanto alcuni giorni. Qualunque fosse  la  sua
motivazione all'epoca, comunque, ha ribadito di essere poi  rientrato
in Italia appena saputo  dell'intervenuta  revoca  per  terminare  di
espiare la propria pena, venendo cosi' a conoscenza del nuovo cumulo.
L'istante ricorda infine che e' in questo paese che si raccolgono  il
centro dei suoi interessi affettivi ed anche delle sue prospettive di
reinserimento, in particolare mediante la ripresa del  lavoro  presso
l'officina meccanica, che gia' svolgeva durante la misura alternativa
precedente. 
    Dato atto della documentazione al  fascicolo,  il  magistrato  di
sorveglianza ritiene di dover  sollevare  questione  di  legittimita'
costituzionale, in riferimento agli articoli 3, comma 1 e 27, comma 3
della Costituzione, dell'art. 58-quater, comma 1, 2 e 3, ord. penit.,
nella  parte  in  cui  detti  commi,  nel  loro  combinato  disposto,
prevedono che non possa essere concessa, per la durata di  tre  anni,
la misura alternativa dell'affidamento in prova al  servizio  sociale
di cui all'art. 47, ord. penit., al condannato nei cui  confronti  e'
stata  disposta  la  revoca  di  una  misura  alternativa,  ai  sensi
dell'art. 47, comma 11, dell'art. 47-ter, comma 6,  o  dell'art.  51,
comma 1 della medesima legge. 
    La  questione  appare  rilevante,  poiche'   il   magistrato   di
sorveglianza  chiamato  a  pronunciarsi  in  via  urgente,  per  come
previsto dall'art. 47, comma 4,  ord.  penit.,  deve  necessariamente
arrestare  il  proprio  esame  della  domanda  dell'interessato  alla
verifica del mancato  decorso,  allo  stato,  del  termine  triennale
decorrente dalla revoca dell'affidamento  in  prova,  intervenuto,  a
soli diciannove giorni dall'allora fine pena, ad agosto 2019. 
    La  conseguenza  di   tale   condizione   e'   l'inammissibilita'
dell'istanza proposta. Viceversa, ove  la  questione  fosse  accolta,
potrebbe  valutarsi  nel  merito  la  sussistenza  delle   condizioni
richieste dall'ordinamento penitenziario per l'accesso  alla  chiesta
misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio  sociale  in
via provvisoria. 
    La lettura inequivoca della disposizione  normativa,  per  quanto
concerne il divieto  di  concessione  dell'affidamento  in  prova  al
servizio sociale, appare precludere differenti  interpretazioni  piu'
favorevoli all'interessato e cio' sembra confermato da  una  costante
giurisprudenza della S.C., che non offre sul punto spazi  di  diversa
lettura della posizione dell'odierno interessato. 
    Basta a questo riguardo fare riferimento al rigore con  il  quale
il divieto previsto dall'art.  58-quater,  comma  2,  ord.  pen.,  di
concessione di  misure  alternative  alla  detenzione  nei  tre  anni
successivi al provvedimento  di  revoca  dell'affidamento  in  prova,
della semiliberta' o della detenzione domiciliare, viene  considerato
non  circoscritto  al  procedimento  esecutivo  nel  cui  ambito   e'
intervenuta la revoca, ma caratterizzato da una portata generale e da
validita' estesa anche ad  altri  e  diversi  procedimenti  esecutivi
(cfr. Cassazione 7 novembre 2000 n. 3802, 19 dicembre 2002  n.  2327,
20 dicembre 2002 n. 6995, sino alla piu' recente, 19 febbraio 2020 n.
14860). 
    Afferma la Cassazione, con impostazione che qui si condivide, che
«la norma e' formulata con riferimento soggettivo al condannato e non
con  riguardo  oggettivo  a  ciascun  singolo  procedimento  in   cui
intervenga la revoca; diversamente interpretando si tradurrebbe in un
inammissibile vantaggio per chi sia interessato da plurime  condanne,
ne' avrebbe ragionevole giustificazione  a  fronte  di  benefici  che
presuppongono pene o residui  di  pena  non  eccedenti  i  tre  anni,
risolvendosi in simili casi solo in un diniego definitivo di  accesso
alla misura». 
    Cio'  basta  a  rendere  non  percorribile  neppure   la   strada
interpretativa,  pure  proposta  dalla  difesa,  di  considerare  non
operativo il divieto triennale nel caso sottoposto all'odierno esame,
perche' differente da quello  sul  quale  la  pena  era  intervenuta,
trattandosi di un provvedimento di  cumulo  sopravvenuto  al  momento
della revoca  (sebbene,  per  altro,  comprendente  anche  il  titolo
precedente, per  il  quale  residuavano  soli  diciannove  giorni  di
reclusione). 
    La questione di legittimita' costituzionale  e',  ad  avviso  del
magistrato di sorveglianza rimettente, non manifestamente  infondata,
per le ragioni che si chiariranno di seguito. 
    Com'e' noto,  l'art.  58-quater,  ord.  penit.,  fu  inizialmente
introdotto  nell'ordinamento  penitenziario  con   decreto-legge   n.
152/1991 e, nella parte qui rilevante, successivamente modificato con
legge n. 251/2005. La  ratio  della  norma,  secondo  le  espressioni
adoperate   dalla   S.C.   nel   sollevare   recente   questione   di
costituzionalita', poi accolta, di cui si trattera', con ordinanza 13
luglio 2018, «esprime una precisa linea di politica criminale,  volta
a sanzionare la scarsa "affidabilita'" di un condannato  responsabile
di condotte negativamente sintomatiche, quali l'evasione,  ovvero  le
trasgressioni alle prescrizioni di una pregressa misura  alternativa,
tali da averne determinato la revoca. Rispetto a tale  condannato  si
istituisce  una  presunzione  assoluta  di   temporanea   inidoneita'
rispetto a forme di espiazione della pena detentiva, che  si  attuino
anche parzialmente al  di  fuori  dell'istituzione  carceraria.».  Si
tratta dunque di una  preclusione  che,  pur  delimitata  nel  tempo,
appare assoluta ed invincibile, pur a fronte di  qualsiasi  progresso
in concreto compiuto dal condannato nel  corso  di  quel  periodo  di
successiva detenzione. 
    La questione oggi esaminata e' stata, in effetti, gia'  proposta,
seppur in termini significativamente diversi, con ordinanza Tribunale
di  sorveglianza  Torino  in  data  28  maggio  2002,  ma  la   Corte
costituzionale la dichiaro' inammissibile con ordinanza  87/2004.  In
quel caso in particolare il rimettente proponeva un parallelismo, dal
quale deduceva la necessita'  di  un  intervento  del  giudice  delle
leggi, tra  la  dichiarata  incostituzionalita'  (sentenza  343/1987)
dell'art.  47,  comma  10,  ord.  penit.,  nella  parte  in  cui  non
consentiva che in caso di revoca il Tribunale di sorveglianza potesse
determinare la residua pena espianda e quella invece da  considerarsi
validamente  eseguita,  e  la  preclusione  triennale  dalla  revoca,
insuscettibile di valutazione flessibile e  individualizzata,  quando
invece possono sussistere anche  molteplici  ragioni  scriminanti,  o
comunque tali da ridimensionare la portata negativa  della  condotta,
che meriterebbero una «sanzione» differenziata. 
    Ad  avviso  della  Corte  costituzionale  tale  parallelismo  non
sussiste, perche' nel primo caso, poi censurato, si  negava  all'a.g.
un vaglio discrezionale, mentre  la  revoca  non  e'  automatica,  ma
«basata su di una valutazione in  concreto  e  caso  per  caso  delle
situazioni in cui il comportamento  del  condannato,  contrario  alla
legge o alle prescrizioni, risulti incompatibile con la  prosecuzione
dell'affidamento in prova (...)» ed e' dunque in  quel  contesto  che
eventuali scriminanti o circostanze  ridimensionanti  possono  essere
adeguatamente valutate. 
    Per come si dira', tuttavia, appare al magistrato di sorveglianza
scrivente che la questione non riguardi, nel caso che ci  occupa,  la
sussistenza dei presupposti legittimanti  la  revoca,  poiche'  della
gravita' e della portata  eventualmente  esiziale  dei  comportamenti
posti   in   essere   dall'affidato   rispetto   alla    prosecuzione
dell'esecuzione penale  in  particolare  con  la  misura  alternativa
concessagli, e' giudice il Tribunale di sorveglianza in quella  sede,
ma concerna invece la  fissita'  degli  effetti  di  tale  revoca,  a
prescindere da ogni considerazione sulla  situazione  concreta  della
persona, sui suoi progressi  trattamentali  seguiti  a  quel  momento
negativo, sulle sue prospettive di reinserimento e sulla durata della
pena ancora espianda, dalla quale potrebbe  scomparire  completamente
(ove il residuo fosse inferiore ai tre anni)  la  prospettiva  di  un
trattamento rieducativo improntato alla costruzione  di  un  percorso
esterno al carcere. 
    Sin dagli anni  '90  l'art.  58-quater,  ord.  penit.,  e'  stato
attinto da questioni di legittimita' costituzionale che ne  hanno  di
fatto  circoscritto  progressivamente  l'applicazione.   Per   quanto
riguarda l'oggetto dell'odierno procedimento, la Corte costituzionale
e' intervenuta, con sentenza 436/1999, a dichiarare  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 58-quater, comma 2, ord. penit. nella  parte
in cui si riferisce ai minorenni. In  quella  lungimirante  pronuncia
che, nel  contesto  minorile,  enuncia  principi  che  appaiono  oggi
largamente  mutuabili  per  gli  adulti  (all'esito  di  un  percorso
giurisprudenziale inequivoco da parte dei giudici della Consulta, cui
si  tornera'  in  seguito),  si  afferma  come   debba   considerarsi
incompatibile con la Costituzione una preclusione,  ove  relativa  ai
minorenni autori di reato, che  impedisca  di  fondare  le  decisioni
dell'a.g. su «valutazioni flessibili  ed  individualizzate  circa  la
idoneita' e la opportunita' delle diverse  misure  per  perseguire  i
fini di risocializzazione del condannato minore, nel  rispetto  delle
specifiche caratteristiche della sua  personalita'  (...)»  e  impone
invece che sia sempre possibile «una valutazione  individualizzata  e
caso per caso, in presenza delle condizioni  generali  costituenti  i
presupposti per  l'applicazione  della  misura,  della  idoneita'  di
questa a conseguire le preminenti finalita' di risocializzazione  che
debbono presiedere all'esecuzione penale minorile.». 
    Con sentenza 189/2010 la Corte costituzionale e' stata nuovamente
chiamata  ad  intervenire  sul  disposto  dell'art.  58-quater,  ord.
penit., ma relativamente  al  divieto  triennale  di  concessione  di
misure  alternative  al  condannato  riconosciuto  colpevole  di  una
condotta punibile a norma dell'art. 385 del codice penale. 
    I giudici della Consulta pervennero, in quell'occasione,  ad  una
pronuncia di inammissibilita', nella forma della sentenza,  per  come
detto, sostenendo che, pur a fronte di una interpretazione  letterale
che, anche per quella fattispecie,  generava  dubbi  di  legittimita'
costituzionale, e' tuttavia possibile una lettura  costituzionalmente
orientata,   che   poggi   sulla   ineliminabilita'    dall'orizzonte
dell'esecuzione penale della finalita' rieducativa della pena. 
    Ad avviso della  Corte  deve  escludersi  «l'ammissibilita',  nel
nostro ordinamento penitenziario,  della  prevalenza  assoluta  delle
esigenze di prevenzione sociale su quelle di recupero dei condannati»
(cfr. sentenza 436/1999), l'opzione  repressiva  non  puo'  «relegare
nell'ombra» il profilo rieducativo (sentenza 257/2006) e si impone al
giudice la necessita' di «valutare, caso per  caso,  con  motivazione
approfondita e rigorosa, la personalita' e le condotte  concrete  del
condannato responsabile del reato di  cui  all'art.  385  del  codice
penale», in tal modo evitando che si determini «la lesione di diritti
inviolabili  della  persona,  il  trattamento  uguale  di  situazioni
diverse, la vanificazione della funzione rieducativa della pena e  la
compromissione degli interessi della famiglia e dei figli  minorenni,
costituzionalmente protetti» (sentenza 189/2010). 
    I contenuti della pronuncia, densi di rilievi significativi anche
nel caso che ci occupa,  erano  stati  di  fatto  anticipati  da  una
giurisprudenza di legittimita' che, nelle more della decisione  della
Corte costituzionale, aveva superato la lettera, per la  verita'  non
equivoca  in  senso  difforme,  dell'art.  58-quater,  ord.   penit.,
ritenendo necessario che la magistratura di sorveglianza  effettuasse
«un'analisi particolarmente approfondita del  condannato,  sulla  sua
effettiva, perdurante pericolosita' sociale alla luce delle  condotte
rilevanti ai  sensi  dell'art.  385  del  codice  penale  oggetto  di
accertamento definitivo, sui  progressi  trattamenti  compiuti  e  il
grado di rieducazione» (cfr., tra le altre, sentenza  22368/2009),  e
non si limitasse ad una decisione di inammissibilita'. 
    La sentenza 189/2010 della  Corte  costituzionale,  in  probabile
correlazione con il dispositivo di inammissibilita'  utilizzato,  non
ha pero'  di  fatto  trovato  una  successiva  piena  adesione  nella
giurisprudenza, persino di legittimita', che e' tornata nel tempo  ad
occuparsi  del  divieto  triennale   di   concessione   di   benefici
penitenziari  nei  confronti  del  condannato  per  evasione,   senza
tuttavia affrontare la tematica del vaglio sostanzialmente di  merito
richiesto dal giudice delle leggi perche' possa  operare  il  divieto
(cfr., da ultimo, ad esempio, sentenza 27 febbraio 2018 n. 30140). 
    A  piu'  forte  ragione,  tale  decisione  non  ha  inciso  sulla
incontroversa  operativita'   dell'automatismo   preclusivo,   seppur
temporalmente limitato ad  anni  tre,  nell'ipotesi  dell'intervenuta
revoca  di  una  delle  misure  alternative  espressamente   indicate
nell'art. 58-quater, comma 1, ord. penit. 
    Di cio' e' prova, da ultimo, l'importante esito  della  questione
di legittimita' costituzionale proposta dalla S.C. con  ordinanza  in
data  13  luglio  2019,  che  ha  condotto   alla   declaratoria   di
incostituzionalita' di  cui  alla  sentenza  187/2019,  in  relazione
all'art. 58-quater, comma 1, 2 e 3, ord. penit., nella parte in cui i
detti commi, nel loro combinato disposto,  prevedono  che  non  possa
essere concessa, per la durata di tre anni, la detenzione domiciliare
speciale, prevista dall'art. 47-quinquies della  legge  penitenziaria
(e in via conseguenziale quella di cui all'art. 47-ter, comma 1 e  2,
ord. penit.), al condannato nei cui confronti e'  stata  disposta  la
revoca di una delle misure indicate nel comma 2 dello stesso articolo
58-quater. 
    La decisione di accoglimento si richiama qui innanzitutto perche'
ha all'evidenza ritenuto che  l'opzione  interpretativa  seguita  dal
rimettente,  a  mente  della  quale  la  lettera  della  disposizione
normativa  avrebbe  comportato  l'inammissibilita'  dell'istanza   di
detenzione domiciliare speciale in quella sede richiesta, ben potesse
sostenere la questione  di  costituzionalita'  sollevata,  e  perche'
ribadisce la portata ostativa derivante dal disposto  dei  primi  tre
commi  dell'art.  58-quater,  ord.  penit.   (cfr.   p.   2.3   della
motivazione). 
    Nel merito poi le questioni sono ritenute fondate, in particolare
evidenziando la speciale rilevanza dell'interesse del figlio minore a
mantenere un rapporto continuativo con  ciascuno  dei  genitori,  dai
quali ha diritto di ricevere cura,  educazione  ed  istruzione,  come
riconosciuto e tutelato sia  nella  Carta  costituzionale  (art.  31,
comma 2 della Costituzione), sia nell'ordinamento internazionale.  La
eventuale  concessione  della  misura  della  detenzione  domiciliare
speciale, volta particolarmente alla cura  del  figlio  minore  ed  a
consentirgli di vivere un rapporto  quotidiano  almeno  con  uno  dei
genitori, non puo' percio'  risultare  vincolata  da  presunzioni  di
pericolosita' sociale, ma un rigetto deve necessariamente derivare da
una valutazione in concreto di bilanciamento tra tale  rilevantissimo
interesse e la pericolosita' sociale del  condannato  (cfr.  sentenza
239/2014). 
    Da  queste  premesse  deriva,  secondo  la   Corte,   che   anche
l'automatismo preclusivo di cui all'art. 58-quater, comma 1, 2  e  3,
ord. penit., per la persona condannata, madre o  padre,  di  accedere
alla misura della detenzione domiciliare speciale per tre  anni  dopo
la  revoca  di  una  misura  alternativa  in  precedenza  concessale,
«sacrifica (...) a priori - e  per  l'arco  temporale  di  un  intero
triennio, che come osserva giustamente il rimettente e' un periodo di
tempo  lunghissimo  nella  vita  di  un  bambino  -  l'interesse   di
quest'ultimo a vivere un  rapporto  quotidiano  con  almeno  uno  dei
genitori, precludendo al giudice ogni bilanciamento tra tale basilare
interesse e le  esigenze  di  tutela  della  societa'  rispetto  alla
concreta pericolosita' del condannato» (sentenza 187/2019, p. 4.4). 
    Da cio' l'accoglimento della questione, con la  precisazione  che
le esigenze di tutela della societa' potranno e dovranno trovare  una
adeguata  considerazione  in  sede  di  valutazione  di  merito   del
Tribunale di sorveglianza circa la  sussistenza  dei  presupposti  di
concessione  della  misura  ed  in  quel   contesto   potra'   essere
adeguatamente valutata anche la tipologia  e  «la  concreta  gravita'
della condotta» che ha determinato la revoca della precedente misura. 
    La questione di legittimita' costituzionale che oggi  si  propone
poggia dunque sul  progressivo  percorso  di  lettura  che  la  Corte
costituzionale e la S.C. offrono all'interprete circa  l'istituto  in
oggetto. Non puo' pero' che essere nutrita, e trovare in questo  piu'
forti ragioni per una rilettura adeguata  al  cammino  costituzionale
sino  ad  oggi  percorso  di  quanto  si  legge  in  alcuni  passaggi
dell'ordinanza della Corte costituzionale 87/2004 gia' citata,  dalla
giurisprudenza costituzionale che ha  progressivamente  eroso,  nella
materia dei benefici penitenziari, i rigidi  automatismi  che  vi  si
leggevano, richiedendo che vi sia sempre una valutazione in concreto,
che ricolleghi la concessione di una  misura  alternativa,  o  di  un
permesso premio, ad una  prognosi  individualizzata,  come  richiesta
dall'art. 1, ord. penit., in materia di  trattamento  rieducativo,  e
ancor  prima  e  piu'  ampiamente  dall'art.  27,   comma   3   della
Costituzione, circa l'utilita' del  beneficio  a  far  progredire  il
condannato sulla via del reinserimento sociale (vd., per  tutte,  tra
le ultime, la sentenza 149/2018, incidente ancora una  volta  su  una
preclusione contenuta nell'art. 58-quater, ord. penit. e 253/2019, in
materia di delitti compresi nel disposto dell'art.  4-bis,  comma  1,
ord. penit.). 
    In  questo  quadro  le  presunzioni  di   pericolosita'   restano
eccezionalmente ammissibili, purche' non arbitrarie ne'  irrazionali,
se rispondono a dati esperienziali  generalizzati,  e  non  risultino
comunque lesive di valori costituzionali. 
    D'altra parte neppure l'esigenza di «lanciare, un robusto segnale
di deterrenza nei confronti della generalita' dei  consociati»  puo',
nella fase di esecuzione della  pena  «operare  in  chiave  distonica
rispetto all'imperativo  costituzionale  della  funzione  rieducativa
della pena medesima, da intendersi come fondamentale orientamento  di
essa all'obbiettivo ultimo del  reinserimento  del  condannato  nella
societa' (...) e da declinarsi nella fase esecutiva  come  necessita'
di costante valorizzazione, da parte  del  legislatore  prima  e  del
giudice poi, dei progressi compiuti dal  singolo  condannato  durante
l'intero  arco  dell'espiazione  della  pena»  (cfr.  sentenza  Corte
costituzionale 149/2018). 
    Nel  caso  che  ci  occupa,  invece,  il  divieto  triennale   di
concessione di benefici penitenziari a seguito della  revoca  di  una
delle misure alternative individuate nell'art.  58-quater,  comma  2,
ord. penit. si appalesa, ad avviso del magistrato  remittente,  privo
delle caratteristiche di ragionevolezza  sopra  descritte  e  percio'
tale da contrastare con gli articoli 3 e  27  della  Costituzione,  e
comunque idoneo a determinare una irrimediabile compromissione  della
finalita' rieducativa della pena, per come  descritta  dall'art.  27,
comma 3 della Costituzione. 
    Non puo' non rilevarsi innanzitutto come la fissita' dell'effetto
preclusivo che deriva dalla revoca non  consente  in  alcun  modo  di
graduare ragionevolmente le  conseguenze  del  comportamento  che  ha
condotto al provvedimento con il quale si e' posta fine  alla  misura
alternativa  concessa.  La  revoca,  com'e'  noto,  consegue  ad   un
comportamento dell'affidato in prova (o della persona  in  esecuzione
di altra misura alternativa), che  si  sia  rivelato  contrario  alla
legge o alle prescrizioni dettate e che appaia incompatibile  con  la
prosecuzione della misura. 
    In presenza di tali elementi il Tribunale  di  sorveglianza  deve
provvedere alla revoca e con cio' resta definito l'effetto impeditivo
triennale all'ottenimento di altro beneficio, senza che  in  sede  di
successiva istanza possa operarsi alcun ragionamento sulla  tipologia
di condotta e  sulla  concreta  gravita'  della  stessa  ai  fini  di
pronosticarne  il  rischio  che  si  ripeta,  ove  l'interessato  sia
nuovamente ammesso ad una misura in condizioni mutate e, soprattutto,
all'esito di una ulteriore osservazione  intramuraria  che,  intanto,
medio tempore, potrebbe aver rimosso  le  ragioni  personali  o  aver
constatato   il   superamento   delle   motivazioni    di    contesto
socio-familiare eventualmente a base della condotta violativa. 
    Non collegata ad alcuna particolare ragione giustificativa appare
inoltre  oggi  la  delimitazione  triennale  del  tempo  in  cui   la
preclusione opera e  che,  arbitrariamente,  fissa  un  lungo  spazio
temporale in  cui  la  persona  si  presume  socialmente  pericolosa,
determinando l'effetto, ad esempio proprio nel caso  che  origina  la
questione  di  costituzionalita',  di  inibire  la  concessione   dei
benefici penitenziari per tutta la durata della pena residua. 
    Cio'  comporta,  di  fatto,  una  fortissima  compressione  della
funzione  rieducativa  della  pena,  confinata  alla  sola  possibile
concessione di liberazione  anticipata,  che  frustra  l'osservazione
intramuraria privandola di ogni concreta utilita' alla costruzione di
percorsi risocializzanti. 
    Per altro la scelta, sia detto in questa sede per  inciso,  visto
che  il  procedimento  da  cui  origina  la  questione  concerne  una
richiesta  di  misura   alternativa   in   via   provvisoria,   pecca
ulteriormente di irragionevolezza, nella misura in  cui  l'inibizione
triennale riguarda allo stesso modo benefici tanto diversi quanto  il
permesso premio, il  lavoro  all'esterno  e  le  misure  alternative,
compromettendo (come gia' evidenzio', per una situazione in tal senso
analoga, la sentenza 149/2018)  la  possibilita'  di  una  necessaria
progressione   trattamentale   in   grado   di   accompagnare    piu'
adeguatamente un nuovo percorso verso l'esterno, ove  le  circostanze
concrete lo suggeriscano, e che potrebbe giovarsi, ad esempio, in una
prima fase, della nuova concessione di benefici premiali, o di misure
alternative con meno ampi spazi di autonomia  di  un  affidamento  in
prova, ma ugualmente utili a consentire al condannato di lavorare,  e
con cio' di partecipare al mantenimento del proprio nucleo familiare,
come la semiliberta', soprattutto laddove, a differenza del  caso  di
specie,  non  sussistesse  un'adeguata   disponibilita'   domiciliare
all'esterno. 
    Irragionevole appare, ancora, che il divieto  triennale  colpisca
il condannato che ha meritato la revoca della misura come uno status,
per quanto a suo modo temporaneo (ma potenzialmente in via definitiva
rispetto all'esecuzione penale che in concreto lo riguarda), e dunque
anche ove sopravvengano, in modo del tutto casuale, ulteriori  titoli
esecutivi che debbono essere eseguiti e che, soltanto sulla base  dei
tempi del processo, della definitivita' intervenuta o della emissione
piu' o meno tempestiva di un provvedimento di cumulo,  lo  colpiscono
nel triennio in cui nulla puo' essergli concesso, invece  che  in  un
momento successivo, incidendo in modo  grave  sulle  aspettative  del
condannato di poter accedere ad un percorso esterno al carcere, senza
che per altro questi potesse prevederlo correttamente nel momento  in
cui pose in essere la condotta poi determinante la revoca. 
    Dal divieto triennale deriva, ancora, ad avviso del magistrato di
sorveglianza  rimettente,  un  vulnus  all'art.  27,  comma  3  della
Costituzione. Il giudice della rieducazione e' infatti ordinariamente
chiamato a verificare l'evoluzione della personalita' del  condannato
a partire dalle sue condotte di reato  e  poi  sulla  base  dei  suoi
comportamenti  nel  corso  dell'esecuzione  penale,  per  leggerne  e
stimolarne i progressi verso il reinserimento sociale. 
    Si ricordi a tale proposito il fondamentale rilievo  della  Corte
costituzionale nella sentenza 253/2019, per il quale «(n)ella fase di
esecuzione della pena, assume invece ruolo  centrale  il  trascorrere
del tempo, che puo' comportare trasformazioni  rilevanti,  sia  della
personalita' del detenuto, sia del contesto esterno al carcere.». 
    La disposizione della quale qui si dubita, al contrario, inibisce
al  magistrato  di  sorveglianza  la  possibilita'  di  esaminare  in
concreto i risultati che  la  revoca  ha  prodotto,  riconducendo  il
condannato all'osservazione intramuraria.  Il  meccanismo  inibitorio
dell'art. 58-quater, comma 1, 2 e 3, deriva dalla revoca subita,  per
un comportamento ritenuto tale da giustificarla, una  presunzione  di
incapacita'  per   un   tempo   dato,   di   condursi   adeguatamente
nell'esecuzione di qualsiasi  beneficio  penitenziario  compreso  nel
disposto dell'art. 58-quater, ord. penit., quando invece l'esperienza
concreta puo' consentire di formulare  pronostici  anche  differenti,
valorizzando l'effetto dissuasivo, ed in tal senso anche interruttivo
di dinamiche rivelatesi disfunzionali, che ben  puo'  derivare  dalla
revoca della misura alternativa. 
    L'insegnamento della Corte costituzionale, sin qui richiamato, e'
tutto teso alla progressiva  eliminazione  delle  preclusioni,  anche
quando giustificate dall'obbiettivo di mandare  robusti  «segnali  di
deterrenza»,  che  impediscono  valutazioni   di   pericolosita'   in
concreto, le uniche che possano giustificare degli arresti  motivati,
e sempre rivedibili, rispetto ai percorsi  di  reinserimento  sociale
che sostanziano la prospettiva costituzionale delle pene. 
    Anche nel caso che ci occupa, dunque, sembra necessario  che  sia
consentito al magistrato di sorveglianza  di  esaminare  la  concreta
situazione del condannato, bilanciando adeguatamente le  esigenze  di
tutela della  societa'  con  la  concreta  pericolosita'  di  cui  il
condannato  si  dimostri  ancora  portatore,  tenendo   conto   della
ricchezza particolare delle misure alternative  alla  detenzione,  in
grado certamente di far  progredire  l'autore  del  reato  nella  sua
risocializzazione, ma insieme di tutelare anche i diritti di soggetti
terzi,  che  dalla  preclusione  finiscono  altrimenti   per   essere
pregiudicati. 
    Si' pensi  in  particolare  al  nucleo  familiare  della  persona
condannata, specialmente ove, come nel caso di specie, siano presenti
minori in tenera eta', per i quali  i  rilievi  della  giurisprudenza
costituzionale, fondati sull'art.  31  della  Costituzione,  e  sulle
disposizioni  sovranazionali,  che  individuano   come   specialmente
rilevante l'interesse del  figlio  minore  a  mantenere  un  rapporto
continuativo con ciascuno dei genitori (non  infatti  soltanto,  come
nell'ipotesi della detenzione domiciliare speciale, quando il  minore
possa contare solo sul genitore detenuto, ma come tutela  dell'unita'
del nucleo familiare), puo' certo divenire subvalente, senza frizioni
costituzionali, a fronte di una  prognosi  di  pericolosita'  sociale
ancora attuale, ma soltanto ove la stessa sia operata in  concreto  e
non  rimessa  ad  una  presunzione  di  immeritevolezza,  per  quanto
temporanea, e comunque per un triennio e cioe' «un periodo  di  tempo
lunghissimo nella vita di un bambino»  (cfr.  sentenza  187/2019,  p.
4.3, con argomenti che, appunto, assumono ad  avviso  del  rimettente
pregio piu' ampiamente che nella sola ipotesi del  beneficio  di  cui
all'art. 47-quinquies, ord. penit.). 
    Non e' d'altra parte privo di significato  (per  come  la  stessa
Corte costituzionale ha gia'  ritenuto,  in  occasioni  sotto  questo
profilo analoghe, con le sentenze 99/2019 e 263/2019) che, nel quadro
di   un   piu'   ampio   intervento   di   riforma   dell'ordinamento
penitenziario,  il  legislatore  con  la  legge  delega   n. 103/2017
prevedesse espressamente, tra i criteri di delega in  materia,  anche
l'eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono ovvero
ritardano l'individualizzazione del  trattamento  rieducativo  e,  in
quel contesto,  fosse  stata  proposta  dalla  Commissione  di  studi
nominata dal Ministro della giustizia, e fatta propria  nello  schema
di decreto legislativo 15 gennaio 2018, pur non poi  coltivato  sotto
questo profilo nei decreti legislativi 123 e 124 del 2 ottobre  2018,
la soppressione dei primi tre commi dell'art. 58-quater, ord. penit.,
proprio per la natura di preclusione, seppur temporanea,  automatica,
con il dichiarato obbiettivo di un complessivo riordino  della  legge
penitenziaria volto a riguadagnarle una piu' piena  coerenza  con  la
finalita' rieducativa della pena. 
    Per le sopra enunciate  ragioni,  ad  avviso  del  magistrato  di
sorveglianza  scrivente,  sussiste  dunque   contrasto   tra   l'art.
58-quater, comma 1, 2 e 3, ord. penit., nella parte in cui  prevedono
il divieto di  concessione  dell'affidamento  in  prova  al  servizio
sociale per un triennio dall'intervenuta revoca di una  delle  misure
alternative ivi elencate, e gli articoli 3 e 27 della Costituzione, e
pertanto, presuppostane la rilevanza per l'odierno procedimento, deve
sollevarsi questione di legittimita' costituzionale  che  si  ritiene
non manifestamente infondata.